L’Ozio è rifugio e strumento d’indagine. Non l’ozio dei basilischi e dei gattopardi, ma quello di Seneca: “una sosta, non un porto”, che dà l’occasione di contemplare, scrutare, conoscere… La quiete apparente del Sud, la lentezza evocata da Franco Cassano nel suo “Pensiero Meridiano”, che permette di “aprirsi magicamente ai sogni” e di trovare “un accordo tra mente e mondo”. L'Ozio che coinvolge gli artisti che hanno deciso di collaborare a questo progetto non è una condizione stagnante ma, al contrario, è il motore della novità: permette di scavare ancora, dopo millenni nella realtà che viviamo, per offrire frammenti di verità. L’arte vuole il suo tempo, l’artista deve impadronirsene per poter pensare, elaborare, mettere in campo la sua abilità manuale, cercando il giusto equilibrio tra virtuosismo e gesto istintuale, tra esperienza personale e collettiva.

giovedì 20 marzo 2014

Lecce fascista - La cariatide di Martinez

Giovanni Matteo


Volevano la pietra leccese, il tufo, il càrparo. Le forme erano completamente nuove, ma i materiali erano quelli che da sempre erano stati cavati dai nostri giacimenti, per costruire sfarzose cattedrali e palazzi imponenti, così come umili case contadine ed insignificanti chiesette di campagna.
Pensai che fosse per quel motivo, che volevano una mia scultura sullo spigolo di quel palazzone che m’avevano fatto vedere in un prospetto disegnato con maestria su un enorme foglio. Ero materiale locale, a quanto pare.
Quando me lo srotolarono davanti non riuscivo a credere che quell’assurdo agglomerato di volumi perfettamente geometrici potesse davvero atterrare tra le volute del barocco e i timpani del manierismo che facevano di Lecce il labirinto disordinatamente aggraziato che ricordavo.
Quando vivevo ancora a Galatina, e già il sacro fuoco dell’arte faceva di me un mucchietto di braci ansiose di ardere e fiammeggiare laddove qualcuno potesse notarlo, un professore aveva intuito che quelle cinque arcate che affioravano dal terreno, come membra di trapassati che cercano di risorgere, dovevano essere parte di un importante edificio di epoca romana. Scava e scava, era venuta fuori metà della pancia vuota di un anfiteatro romano di considerevoli dimensioni: Lecce doveva essere una piccola Roma, ai tempi dell’impero. Forse per questo, qualcuno, dalla capitale, si era degnato di rivestire con i rigidi abiti del nuovo impero quella città lasciata troppo a lungo abbandonata alle mollezze del suo sogno millenario.
Il corpo principale del Palazzo dell’INA si incurvava ad assecondare i contorni dell’anfiteatro, ma i ruderi rimanevano al di sotto del piano di calpestio, quasi del tutto estranei all’ininterrotto incrociarsi dei quotidiani tragitti dei vivi, mentre la geometria si impadroniva del panorama cittadino, e forse ne cambiava l’animo e la mentalità. Forse.
La mia cariatide, pensai, doveva essere un raccordo tra quella spaventosa modernità e la coscienza di un’antichità meno edulcorata di quella barocca delle chiese e dei vicoli. Un piccolo anello di congiunzione, una lieve concessione alla decorazione plastica in corrispondenza di uno dei tanti incroci di quel titanico reticolo di minacciose (almeno così parevano a me) linee rette.
Forse qualcuno non si sarebbe neppure accorto della sua esistenza, ma sarebbe stata lì, più in basso, più umile, più laica e domestica del santo benedicente in cima alla colonna ma, comunque, in alto.
Non era la prima figura che scolpivo per le fortezze del regime: il Pilota ed il Maestro d’ascia per il prospetto del Palazzo delle Finanze di Bari erano più imponenti, ma anche più lontane dal mio sentire.
Erano stati anni di sintesi e di confronto, per me e per altri che andavano conquistandosi favori decisamente maggiori tra i critici e gli uomini di governo. Anni di arcaismo, volumi solidi, severità delle forme. Non certo per adattarmi al gusto imperante: la moda del Ritorno all’Ordine non mi aveva toccato, a suo tempo. All’ordine non avevo mai smesso  di tendere, per onorare i miei veri maestri, i grandi del Rinascimento, e per sottrarre i miei pensieri al caos che facilmente li assorbiva, facendoli mulinare angosciosamente in un vortice che mi inghiottiva e mi sballottava, soprattutto in gioventù.
Quando i futuristi cominciarono a venirsene con le loro idee astruse, scrissi perfino un contromanifesto. Non ero che un ragazzo di provincia, ma ero in grado di capire quale fosse il loro scopo e quali mezzi tecnici e stilistici intendessero utilizzare, e ne capivo abbastanza per realizzare che non mi interessavano.
Per me l’artista non avrebbe mai dovuto essere altro che un interprete delle umane passioni, e i futuristi facevano dell’uomo un manichino, un pupazzo a molla simile a quelli che si donano ai bambini per la Befana. Balla e Boccioni confondevano la scienza e la meccanica con l’arte, e mettevano l’uomo in un cantuccio.
Questa mia visione dell’arte m’aveva lungamente penalizzato: la definivano “ottocentesca”, e qualcuno prese perfino il mio padiglione alla Biennale per la retrospettiva di uno scultore del XIX secolo, rispolverato per l’occasione. Non me la presi. D’altronde per me la polemica sull’Ottocento non era chiusa, non c’era niente da buttare via, nessun punto zero da cui ricominciare, nessun punto meno uno da cui riallacciarsi alla tradizione.  
Forse per questo non volevo che la mia cariatide fosse un’eroina della modernità, come il pilota o il maestro d’ascia. Doveva essere antica ed umana, una contadina dimessa, eppure dritta sulla schiena, con il capo rispettosamente coperto ma il volto in luce, sereno ed affaticato ad un tempo, come quelle dipinte da Millet, che dalla campagna veniva davvero, proprio come me.
Delle contadine raccontate dal pittore francese doveva avere la dignità, non l’umiltà e la dolcezza; non doveva trasmettere l’afflato religioso che animava Millet. Se un senso religioso doveva impetrare, la mia cariatide, non era certo quello cristiano: una piccola dea delle messi, casomai, una delle tante piccole dee senza Olimpo che permettevano al Duce, mietendo e raccogliendo, di tenere tutto stretto stretto tra le sue braccia forti: “Tutto dentro lo Stato, niente al di fuori dello Stato”, come recita ancora la spessa scritta nera in cima alla facciata curvilinea della Questura.
Con le loro braccia, che perdevano ogni mollezza ed eleganza femminili, quelle piccole dee gli concedevano di erigere i suoi santuari al dio Stato e i monumenti alla strana divinità nelle vesti della quale lui stesso si faceva rappresentare. Una divinità senza apparenti debolezze, a differenza di quelle greche e romane. E senza le loro proporzioni perfette, mi permetto di aggiungere, ora che nessuno mi sanziona se non riesco a starmi zitto o dimentico di indossare la camicia nera durante l’ennesima parata, come quella volta a Roma.
Quelle piccole dee senza Olimpo, poi, spigolando come ai tempi dell’Antico Testamento, riuscivano a portare un po’ di farina in casa, con cui fare qualche pagnotta di pane bianco, ogni cento di pane nero che i loro figli dovevano sbocconcellare, in attesa di dannarsi nei campi e tra i filari, e di farsi valere sul campo di battaglia.
Così andavo ragionando, e tacevo, ché a malapena riuscivo a dar da vivere alla mia povera Amelia, e poi, quelle rare commissioni mi davano la possibilità d’essere uno scultore povero, piuttosto che un povero scultore.  
Ragionamenti ottocenteschi, troppo rossi per l’era di Mussolini, troppo grigi per quella che venne poi, quella della cosiddetta “ricostruzione”. Corsi e ricorsi, sempre. Costruzione abbattimento ricostruzione. Prima nell’Arte, che è sempre un passo avanti, poi nella Storia. E mai nessuno che riesca a vedere un filo di senso ininterrotto.
Io mi affaticavo gli occhi per vederlo, quel filo, nella penombra del mio studio, ché l’elettricità costa. Lo cercavo nelle vene della pietra, nelle tracce che lasciavo con le mirette nell’argilla fresca, tra i graffi dei miei disegni. Ma non divaghiamo, anche se, chi mi conosce bene, ci è abituato, al mio divagare.
Dicevo che la mia cariatide doveva essere severa ma, per quanto ci provassi, non riuscivo ad impormi una linearità che facesse rassomigliar le mie sculture a quei mirabili spaventapasseri che scolpiva Martini e quegli inquietanti, umanissimi burattini che dipingeva Sironi. Così mi concentrai sulle spighe.
La natura, a ben vedere, sa essere molto lineare. Molto più dell’uomo che si incurva di continuo, piegando la schiena davanti al più forte o dandosi uno slancio di ribellione; l’uomo che sale in cima e rotola giù come Sisifo, che segue percorsi tortuosi per ritrovarsi miseramente al punto di partenza o fatalmente dove magari nemmeno lui sa.
Dunque, scolpii le spighe pensando all’angolo dell’edificio che doveva accogliere la mia scultura: avrebbero seguito verticalmente lo spigolo, così pure la mia contadina sarebbe riuscita solenne, marziale, essenziale, come quelle pietre squadrate erette nel cuore stranito del gorgo barocco di Lecce.
Quante contadine, quante madri avevo ed avrei disegnato, scolpito, plasmato. Quella che ho regalato a Lecce può sembrare diversa da tutte loro, perché quelle stavano tutte sedute: alcune in attesa dello sciogliersi del mistero della nascita, altre dell’uomo di ritorno dai campi o dalla guerra, altre ancora in attesa di quel tutto e niente che è il volger delle stagioni, altre ancora, della morte.
Questa è in piedi, è vero. Qualcuno potrebbe pensare che la mia contadina si fosse alzata perché l’attesa era finita, il riscatto era arrivato fino ai campi dove quelle come lei s’erano spezzate la schiena fino a quel momento. Glielo lasciavo credere, a quei bolsi gerarchi in abiti militareschi, adatti ad una guerra che si guardavano bene anche solo dal pensare di combattere in prima linea e che, di lì a poco, ci avrebbe travolto tutti come una disgrazia inevitabile.
La mia contadina sa benissimo che il riscatto non ha niente a che vedere con gli slogan, le promesse, le prese di posizione e nemmeno con i movimenti di popolo. Il riscatto è una questione privata, è l’ultimo colpo di scalpello che ti risolve la paziente fatica di mesi, è la spigolatura al crepuscolo, quando il padrone ti lascia finalmente andare a casa, per portare a molire quel poco di farina che ti permetterà di cuocere finalmente un bellissimo pane bianco.
La mia contadina è in piedi. Perché segue uno spigolo.



venerdì 16 agosto 2013

"Lecce barocca. E Lecce fascista?"

 Giovanni Matteo, contributi di Sante Cutecchia e Stefano De Santis


Nell’agosto del 2012 il progetto Ozio faceva il suo primo passo con la collettiva omonima presso Art&Ars Gallery, in Galatina. L’immagine scelta per trasmettere in modo immediato il vortice di idee e suggestioni che animavano il gruppo di artisti coinvolti nell’esibizione era un puttino, rubato al balcone di un palazzo seicentesco della cittadina al centro del Salento. Uno stralcio del Barocco pulsante e caotico del leccese come segno della volontà di far confluire il “pensiero meridiano” nel procedimento artistico. Nel febbraio del 2013 il progetto si sposta a Matera, per riflettere sul concetto dell’abitare. La chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve fornisce l’immagine di questa tappa, con i cerchi concentrici ricavati nella piatta volta di pietra, a sostituire la cupola ed a suggerire un’idea di elevazione. Elevazione che può avvenire al chiuso di un edificio, un manufatto umano, se risponde a delle precise esigenze formali e spirituali.
In questa occasione gli artisti del gruppo intendono confrontarsi con la città di Lecce. Sarebbe agevole ripartire dalle suggestioni delle caratteristiche declinazioni locali del Barocco, perfettamente calzanti con il tema centrale del progetto, ma si è scelto di volgere lo sguardo altrove. Nonostante la sua posizione geografica, Lecce, nell’ambito del Barocco, è centro. La facciata di Santa Croce campeggia su migliaia di guide turistiche, in qualunque manuale di Storia dell’Arte e perfino tra le pagine dei testi scolastici delle medie. E Ozio lavora sull’idea di perifericità. Non per snobismo, né per paura di percorrere sentieri già calcati, ma perché lo sguardo dell’ozioso si riserva il tempo di posarsi dove raramente cade quello altrui. Perché si prende il lusso di non essere selettivo.
Attraversiamo, allora, via Libertini, lasciandoci dietro il sensuale brulichio di piccole luci ed ombre delle facciate barocche e ci affacciamo su Piazza Sant’Oronzo, distogliendo lo sguardo dalla colonna e dal Sedile, per soffermarci sui chiaroscuri netti delle architetture razionaliste che dialogano con il vasto spazio. Dialogano, sì, ma in marziale silenzio. Lecce barocca? È un passato che ci piace sentire presente, anche per ragioni di marketing territoriale. Lecce romana è seminascosta al passante, nel fondo ombroso dell’anfiteatro e dignitosamente conservata nei musei. Che nei profili netti del palazzo dell’INA si possano, invece, scorgere gli inquieti spettri di una Lecce fascista ci crea perfino imbarazzo. Eppure si tratta dell’ultimo imponente intervento urbanistico sul cuore dell’abitato.

Anche a me piace, specie nei tramonti melanconici di questo Salento bello nella sua uniforme monotonia, cullarmi tra la storia e la leggenda e la fantasia; e sognare di città morte (…); ma oggi più che mai la vita è battaglia, è lotta, è vibrazione nuova; oggi occorre, più che addormentarsi, svegliarsi dal nostro sogno millenario. (…) Quando saremo stati capaci di costruire i porti, le strade ferrate, le città, quando avremo essiccato le paludi, risanato le plaghe squallide (…); allora solo avremo il diritto di riposarci sui ruderi della passata grandezza per compiacerci di averne costruita una nuova.”

Le parole di Ernesto Alvino non fanno che confermarci l’esistenza di quello spirito sognante e riflessivo che sentiamo appartenerci ma, allo stesso tempo, aprono una finestra sullo spirito del tempo in cui quegli interventi urbanistici sono stati voluti con forza e messi in atto, non senza polemiche e difficoltà.
È proprio la perifericità di Lecce a mettere in discussione il varo di grandi interventi urbanistici: con la scorporazione dell’antica Terra d’Otranto e l’istituzione delle province di Taranto e poi di Brindisi, voluta proprio da Mussolini, Lecce si configura come una realtà isolata e di modeste dimensioni. Eppure tra gli anni Trenta e Quaranta esplode “una febbre di opere mai supposta, una corsa entusiasmante a riguadagnare terreno per raggiungere in testa di comando le più fattive e progredite città italiane.”, come scrive sempre Alvino nel ’39 in “Puglia in Linea”.
In questi anni vedono la luce edifici come il palazzo dell’INA e quello dell’INPS, il Liceo Palmieri, il Magazzino Tabacchi e il Sanatorio, ai quali lavora l’impresa di Pierluigi Nervi, il Cineteatro Massimo, la Casa del Balilla, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, il Liceo Musicale. Opere rivoluzionarie, in controtendenza con il quieto e solenne, un po’ funereo, stile umbertino di molti edifici risalenti solo al decennio precedente.
Presenze imponenti e spartane. Volumi geometrici che gettano sul piano stradale i loro spigoli vivi, i piani continui sui quali si aprono finestre ampie ed alte che sembrano occhi sbarrati ed attenti. Niente fronzoli: muri, balaustre, architravi, cornici che non cercano di simulare elementi vegetali e non si animano di putti, grifi e mascheroni, come a definirsi con chiarezza e sicurezza per quello che sono: edifici pubblici, snodi del traffico della cittadinanza, luoghi assembleari e di erogazione di beni e servizi, favori e dinieghi, testimonianza e strumento di controllo del potere, certo, ma privi di quella retorica che ancora trasudano le espressioni architettoniche di regime dei cugini d’oltralpe: le enormi statue che fanno pensare ad atleti greci anabolizzati e senz’anima, la monumentalità esasperata e propagandistica delle tetre costruzioni naziste hanno fatto raramente breccia nella nostra penisola. Grazie ad un’idea di pretesa mediterraneità e ad un controllo meno rigido, o forse solo più italicamente pigro, dello spirito e della mente di progettisti ed artisti.
Qui c’è solo qualche cariatide, qualche fregio scultoreo, qualche scritta. Una parola, un simbolo, una figura che deve esprimere un concetto. Seccamente, una volta per tutte. Nessuna concessione al gusto diffuso, nessuna icona rassicurante. Spigoli, architravi, superfici piane senza retorica che svettano sulla selva ampollosa di ghirlande, telamoni e colonne tortili. Nessuna citazione del campionario iconografico e formale della leccesità, se non la scelta dei materiali autoctoni. Una scelta semplice, pratica, razionale che testimonia la volontà di condurre la città ad incarnare, anzi impetrare, i nuovi modelli, e non ad indossarli, come una solenne quanto provvisoria divisa da parata.
Cosa resta oggi, dell’ansia di rinnovamento espressa da Alvino? Di quell’urgenza di bonifica, edificazione, riorganizzazione? È possibile che le spinte rivoluzionarie, le soffocate grida di ribellione degli oppositori, lo spirito stesso del tempo, agitato da tensioni contrarie e turbato da eventi che hanno segnato la nostra storia e la nostra identità, sia stato inglobato da quello immutabile e sonnolento, del “Salento bello nella sua uniforme monotonia”? Che il piano temerario che doveva cambiare volto ed anima della città sia stato metabolizzato da una Lecce che proprio non vuole smettere di essere barocca e sognante? Spigoli vivi e piani ortogonali come velo sottile di edifici smussati e ricamati nel loro intimo dallo stesso vento irrequieto che consuma le bianche calcareniti, nelle stradicciole che portano a piazza Sant’Oronzo? Forse.
O forse no. Forse c’è qualcosa nel grande artista e nel grande architetto di questo nostro strano Paese, che si ribella sempre, a volte platealmente, a volte in modo sottile. Le esigenze di ordine e compostezza che animano i razionalisti nell’architettura e i novecentisti nella pittura non potrebbero nascere dall’urgenza di imbragare un’energia creativa così potente ed instabile da poter risultare distruttiva? I futuristi sono stati usati e poi gettati via o acquietati dal regime maturo. Il loro agitarsi è servito fino a quando il Fascismo è stato rivoluzionario, poi è risultato scomodo e inappropriato e le loro scoperte, il loro progetto di sostituire la tecnologia allo spirito e la macchina al corpo ci appaiono oggi, mentre ci prepariamo ad una decrescita divenuta improcrastinabile, tanto più stantii del “chiaro di luna” che volevano distruggere.
C’è qualcosa di più profondamente rivoluzionario dei proclami onomatopeici e delle linee – forza, in questa compostezza, in questa razionalità. Dietro la ricerca del volume puro si agita qualcosa di indefinibile. La rivoluzione, in un Paese soffocante come il nostro non può che vibrare sottopelle e trasmettere segretamente queste vibrazioni, quest’inquietudine che ronza sotto le superfici regolari degli edifici e i corpi torniti dei dipinti.
Qualcuno lo chiama “sospensione”. Sospensione di cosa? Della rivoluzione? Del pensiero? Della vita?
Quella che ci trafigge l’anima di fronte a questi edifici, così come di fronte ad una tela di Sironi è una sospensione che non ha niente a che fare con quella che possiamo provare di fronte ad un tempio greco o alla volta di una chiesa romanica, che ci possono regalare un senso di sospensione accidentale, dovuto allo stratificarsi della storia che ha avuto un particolare rispetto per quei capitelli e quei costoloni. Io credo che il senso di sospensione che proviamo davanti alle espressioni dello spirito di quel tempo, corso ma recente, non sia accidentale.
Il passare degli anni”, dice Pier Paolo Pasolini parlando nello specifico di Sabaudia, “ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico.” Metafisico nel senso che riesce ad evocare il silenzio carico d’attesa delle piazze dechirichiane, realistico nel senso che “si sente che le città sono fatte – come si dice, un po’ retoricamente – a misura d’uomo: si sente che all’interno ci sono delle famiglie costituite in maniera regolare, delle persone umane, degli esseri viventi completi, interi, pieni nella loro umiltà”. Per lui il razionalismo non è un’espressione del regime fascista ma dell’Italia provinciale, rustica, vera. E giunge ad affermare che il vero fascismo è quello della “civiltà dei consumi” che “sta distruggendo, in realtà, l’Italia”.
Forse la distruzione profetizzata da Pasolini è già avvenuta e queste strutture hanno conservato il loro carattere metafisico, mentre la percezione di quello realistico potrebbe essere ormai severamente compromessa dalla logica del consumo e dall’appiattimento culturale che ne è derivato.
L’arte non può che raccogliere le suggestioni che emanano dai luoghi modificati in quegli anni, secondo logiche per noi difficilmente condivisibili ma certamente estranee a quelle che da decenni portano un cospicuo numero di addetti ai lavori a confrontarsi con il territorio come un bene da consumare, oggetto di lottizzazione indiscriminata, di investimento e non di attribuzione di funzione e significato.
Con le opere che proporremo e le performance che metteremo in atto presso questi edifici non intendiamo celebrare l’architettura di regime, né iniettare malinconie o sentimenti revisionisti nello spettatore, ma indicare un aspetto della cultura italiana che ci appartiene e ci affascina perché è forse l’ultima, vera testimonianza di un sentire e di un vivere comune che, come ha realizzato Pasolini, non è univocamente riconducibile al Fascismo.
L’identità di un popolo è complessa, stratificata. Come quella di un individuo è costituita da elementi profondamente differenti, talvolta contrastanti, eppure vale la pena di attraversare ogni territorio che compone questa complessità, per riconoscersi e per riconoscere le tante sfaccettature di un’identità che non può essere rigida, monolitica, chiusa.
L’arte è in grado di condurre ogni cosa su un piano parallelo a quello del vissuto quotidiano, superando le barriere. Vagabondando per Lecce fascista tracceremo strade che collegano punti non congiungibili su una normale planimetria e ne disegneremo un’altra. Improbabile, metafisica, realistica, sospesa su questa città fatta della pietra che dalla città stessa prende il nome, come a indovinarne il fantasma.

Bibliografia:

Ettore Bambi, Stampa e società nel Salento Fascista, Lacaita editore, 1981
Silvia Bignami – Paolo Rusconi, Le arti e il fascismo. Italia anni Trenta, Art e Dossier, Giunti 2012
Marcello Fagiolo – Vincenzo Cazzato, Le città nella storia d’Italia: Lecce, Laterza, 1984
Andrea Mantovano, Il volto della città nuova: la rivoluzione razionalista a Lecce, in Kunstwollen n°2 – Architetture salentine, Edizioni Esperidi, 2010
Andrea Mantovano,Trasformazione di uno spazio pubblico: Piazza S. Oronzo a Lecce



"Lecce fascista, una cartina turistica di regime" - Elemento della performance omonima."

lunedì 28 gennaio 2013


 


ARTErìa
associazione d'arte e cultura Matera


inaugura:




Ozio - Abitare

dal 3 al 23 febbraio 2013
Sala mostre ARTErìa, Vico XX settembre, 2 - Matera

Inaugurazione 3 febbraio, ore 18,30

Orari:  Lunedì - Sabato 16,00 - 20,00

www.arteriamatera.it
Tel/Fax 0835.337383 - 3284030729


"Ozio - Abitare" è una ricognizione sul lavoro svolto negli ultimi mesi nell’ambito di “Ozio”. Si tratta di un progetto nato da un gruppo di artisti del sud Italia che coinvolge personalità operanti in aree geografiche differenti, impegnati in procedimenti di vario genere, in un percorso volto alla riscoperta di un atteggiamento lento e riflessivo nei confronti del fare arte, alla presa di coscienza del valore archetipico delle immagini, alla valorizzazione della perifericità, sia in senso geografico che culturale.
Orfeo Cellura, Hernàn Chavar, Francesco Cuna, Sante Cutecchia, Pasquale De Sensi, Tinatin Ghughunishvili, Mariateresa Marino, Salvatore Masciullo, Luigi Massari, Alessandro Matteo, Fabio Mazzola, Emanuele Puzziello e Caterina Striccoli si confrontano con l’idea della casa, adottando come bussola il concetto di abitazione come cassa di risonanza delle vibrazioni del mondo. Non un manufatto che deve semplicemente soddisfare le esigenze materiali dell’uomo ma, come hanno fatto per millenni le abitazioni rupestri dei Sassi, favorire la sua sintonia con il ciclo vitale, la cadenza del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni e perfino la dicotomia vita / morte. Ciascuno degli artisti coinvolti riflette in modo personale, focalizzando ora l’aspetto privato ed intimo dell’abitare, ora gli aspetti simbolici e rituali o quelli socio antropologici e mettendo in relazione il processo creativo dell’opera d’arte con quello della costruzione della casa.

Dal 3 febbraio sarà possibile effettuare gratuitamente il download del catalogo in pdf da questo blog.

martedì 22 gennaio 2013

Appunti sull’abitare





 Può sembrare una constatazione forzata ma, sfogliando un qualsiasi manuale di Storia dell’Arte, risulta evidente che la gran parte delle opere universalmente riconosciute come contributi essenziali al progresso delle arti visive in senso “positivista”, sono frutto di uno sguardo all’esterno, fuori dalle mura domestiche. Le stazioni rumorose e gli affollati caffè degli impressionisti, le strade illuminate da bagliori acidi degli espressionisti, le piazze in rivolta e i fragorosi cantieri dei futuristi potrebbero essere considerati tappe di un cammino di estroflessione che ha il suo culmine nell’invasione degli spazi pubblici e negli interventi sul paesaggio operati nell’ambito della Public Art e della Land Art alla fine del Novecento.

Mentre si consuma questa corsa verso l’esterno sono tanti i grandi maestri a rimanere tra le mura di casa, segnando un percorso individuale e spesso aprogrammatico, tortuoso e sotterraneo. Cammini di introflessione, spesso tutt’altro che rassicuranti. Pensiamo agli infiniti pavimenti a scacchi di Casorati, agli interni soffocanti di Balthus, alle pareti incolore che pulsano intorno alle bottiglie di Morandi, alle stanze livide delle case di Hopper che, viste dall’esterno, appaiono impenetrabili ed enigmatiche ancor più che all’interno, ai secchi riferimenti prospettici che balenano come tracce luminose nel buio in cui si dibattono le creature di Francis Bacon.

Eppure questo atteggiamento introspettivo e, potremmo dire, “domestico” non ha niente a che vedere con la chiusura, semmai con la separazione: Jung sosteneva che la casa possiede una valenza intrapsichica, in quanto luogo in cui l'uomo si rapporta e vive con le superfici e con gli oggetti di cui si è circondato per rappresentare il proprio mondo, ma anche una superficie intermedia tra il mondo interno e quello esterno della persona. L’archetipo della casa, nucleo di questa esibizione, si può applicare al concetto stesso di opera d’arte che, come la casa, è una costruzione che accoglie lo spettatore - ospite e gli chiede di confrontarsi con i suoi contenuti.

Contemporaneamente gli offre l’opportunità di riflettere sulle leggi che ne governano la struttura e determinano la compiutezza della sua forma. Questo passo ulteriore ci può condurre ad un approccio freddamente analitico, se ci atteniamo al ruolo che la mentalità occidentale affida all’arte e che attualmente ci offre un’idea compromessa e frammentaria, se non travisata, del valore artistico di un oggetto. Se, invece, ci apriamo per un attimo alla concezione orientale, possiamo pensarla come ad una sorta di mappa per la meditazione: il dipinto, il disegno, la fotografia come planimetrie dello spirito da percorrere, conoscere ed abitare.

La compiutezza della forma, alla base del concetto di opera d’arte, si lega strettamente anche all’idea della costruzione, in particolare per ciò che riguarda gli edifici sacri: l’attenta lettura della simbologia presente nelle cattedrali gotiche e in varie “dimore filosofali”, operata da Fulcanelli, ci fornisce una chiave per aprirci ad una fruizione di queste costruzioni come  “libri di pietra”, edificati seguendo un ben preciso ordine rituale e la cui costruzione (comprendente l'immenso apparato iconico all'interno degli stessi edifici) simboleggiava quella della Grande Opera Alchemica.

La ritualità ed il simbolismo che animano la magia e le forme arcaiche di religiosità governavano, prima che dilagasse la via “razionale”, la progettazione e la costruzione della casa: l’abitazione non doveva semplicemente soddisfare le esigenze materiali dell’uomo, ma favorire la sua sintonia con il ciclo vitale, la cadenza del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni e perfino la dicotomia vita / morte.

Heidegger, nel suo “Costruire abitare pensare”, parte dall’analisi di parole arcaiche nate per esprimere questi concetti e giunge a dire che “L’abitare è il modo secondo il quale i mortali sono sulla terra”.  Il filosofo include gli uomini in una originaria unità, la “quadruplicità”,  formata da mortali ed immortali, terra e cielo. Abitare è custodire, proteggere l’essenza della quadruplicità, non semplicemente soggiornare; le “cose che non crescono”, cioè quelle edificate dai mortali, possono “radunare la quadruplicità”, darle una “dimora” e stabilire un “rapporto tra il luogo e l’uomo che è in esso”. Solo  la “capacità di far penetrare terra e cielo, gli immortali e i mortali in essenziale unitarietà nelle cose” può edificare la casa.

Gli artisti di Ozio e quelli coinvolti nel progetto, si confronteranno non a caso, nella prossima tappa materana, con l’idea dell’abitare. Le abitazioni rupestri dei “Sassi”, che oggi ci appaiono semplicemente “pittoresche”, sono frutto di un intelligente percorso di adattamento dell’uomo alla natura, alla pietra, alla conformazione del paesaggio ed al suo rapporto peculiare con il ciclo dell’acqua e perfino con la direzione dei raggi solari, durato ininterrottamente, e in continua evoluzione dal paleolitico al Cinquecento. La struttura stessa dell’abitato era, già dal neolitico, pensata per orientare nel modo più corretto l’uomo nel flusso del tempo, in armonia con il cosmo secondo le conoscenze tradizionali in campo astronomico. La casa come cassa di risonanza delle vibrazioni del mondo, dispositivo che permette di generare quello stato di sospensione che riteniamo essenziale allo sviluppo del processo creativo.


 Giovanni Matteo

Emanuele Puzziello

sabato 8 dicembre 2012

Tutti su Ventura



Hernàn Chavar, Francesco Cuna, Mariateresa Marino, Salvatore Masciullo, Alessandro Matteo, Fabio Mazzola, Emanuele Puzziello e Caterina Striccoli si ritrovano a Majazzin, un vero crocevia per gli artisti di Ozio, molti dei quali si sono incontrati qui in occasione delle piccole mostre nella casa – galleria di Sante Cutecchia, ad Altamura. Lo stesso luogo in cui hanno conosciuto il maestro Domenico Ventura, eclettico pittore della città murgiana, il suo mondo inquieto ed oscillante tra atmosfere provinciali e popolaresche ed un’ironia sottile e talvolta perfida, sublimate in una pittura magistrale, quasi classica, turbata di tanto in tanto da ricercate incongruenze.
La partecipazione alla prima tappa salentina (Art & Ars Gallery, estate 2012) di Ozio da parte di un pittore ormai affermato ed appartenente ad una generazione lontana da quella dei membri del gruppo si giustificava proprio con il riconoscimento dei loro intenti e delle loro intuizioni nel percorso di Ventura. Una strada segnata da quel senso di sospensione, da quella riflessiva lentezza, da quell’amore avvelenato per la periferia che contraddistingue la via di Ozio.
“Tutti su Ventura” raccoglie i tentativi degli artisti in mostra di penetrare nell’universo assurdo del pittore altamurano e rubarne un frammento ciascuno per rielaborarlo ed ottenerne opere personali che mettano in luce i nodi esistenti tra i loro singoli percorsi e quello di Ventura.